Guai in vista per la “Trinità” di Rublëv

Guai in vista per la “Trinità” di Rublëv

Putin muove armi, uomini e icone.

Un’opera che sarà esposta senza protezione alla devozione dei fedeli nella Cattedrale del Redentore a Mosca. Una decisione presa ignorando gli avvertimenti sui danni cui la più celebre e la più santa delle icone sarebbe incorsa

La ‘Trinità’ di Rublëv, anche per molti non credenti, ed estranei al miracolo della pittura di icone, è il dipinto più bello del mondo. Ieri Anna Zafesova sulla Stampa dava notizia del suo spostamento dalla Galleria Tretyakov, dov’era conservata da un secolo per preservarla da guerre, intemperie e guasti ambientali: va per un anno alla Cattedrale del Redentore a Mosca, poi da lì al luogo in cui era stata dipinta nel 1422, il monastero della Trinità di san Sergio di Radonež, a 75 km a nordest della capitale. Uno spostamento al Lavra di san Sergio era già avvenuto l’anno scorso, per la celebrazione dei 600 anni dalla traslazione delle reliquie del santo. In ambedue le circostanze la decisione è venuta da Putin, ignorando gli avvertimenti e la resistenza dei curatori della Galleria e degli studiosi sui danni irreparabili cui la più celebre e la più santa delle icone sarebbe incorsa una volta esposta senza protezione alla devozione dei fedeli, fumo perenne di candele, umidità di fiati, sbalzi di temperatura. Non c’è chiesa ortodossa, del resto, che non contenga una o più copie della “Trinità”, meta di preghiere e voti. Così anche in tutte le chiese ucraine.Zafesova ricorda il licenziamento in tronco della prestigiosa direttrice della Tretyakov, Zelfira Tregulova, sostituita da Elena Pronicheva, ignara d’arte ma figlia di un grosso generale del Fsb – il servizio erede del Kgb: magnifico aneddoto.Sono anch’io fra quanti pensano a quel dipinto come al più bello. Ho potuto visitarlo più volte dov’era custodito, e visitare il monastero. Ho letto quello che ho trovato sopra le innumerevoli interpretazioni, spesso ispirate, altre volte ingegnose e suggestive. Me ne è restata una specie di devozione alle figure rese serenamente meravigliose da qualcosa che sanno solo loro, e che si lascia, se non immaginare, vedere. Per la fama di Rublëv molto fece il bellissimo film di Tarkovskij del 1966, in bianco e nero salva l’esplosione finale dei particolari dei dipinti a colori. Oggi, se aprite la rete al nome “Trinità di Rublëv”, trovate che probabilmente è il dipinto per il quale più alta è la domanda di riproduzioni nel mondo. L’opera che ha forse soppiantato i capolavori letterari che hanno fatto la gloria mondiale della Russia. Ora la “Trinità” di Rublëv è stata rinazionalizzata, in omaggio all’alleanza fra il Cremlino di Putin e il Patriarcato di Kirill, e in nome di una restituzione alla venerazione popolare, che se ne consoli e la consumi. Un’altra delle perdite da ascrivere alla guerra all’Ucraina, non delle minori.

L’invasione russa della Trinità di Rublev
Per rafforzare lo spirito del patriottismo ortodosso Putin ha rotto ogni indugio, decidendo di restituire a titolo definitivo la celebre icona alla Chiesa di Kirill. Non importa se l’esposizione nel monastero della Santissima Trinità potrebbe ridurla in polvere. Ma l’idea di usare un’icona per giustificare la santità del potere assoluto non è affatto nuova.

✒️ Di: Stefano Caprio – Asia News
Data di pubblicazione: 20 Maggio 2023



Il patriarca Kirill lo aveva ben spiegato fin dai primi giorni dopo l’invasione putiniana dell’Ucraina: “Questa è una guerra metafisica”, che va oltre ogni confine geografico e spirituale. Dopo un anno e tre mesi di guerra sfibrante e infruttuosa, che procura solo morte e distruzione senza spostare di un centimetro la grandezza dell’impero, Putin e Kirill hanno finalmente raggiunto il vero obiettivo: hanno invaso il regno dei cieli, occupando lo spazio della Santissima Trinità. Al posto del Padre e del Figlio ora ci sono il Patriarca e il Presidente, e lo Spirito Santo è impersonato a turno dal Paese soggiogato, oggi l’Ucraina, ieri la Georgia, domani magari il Kazakistan o il Sudan, o qualunque altra ipostasi del “mondo russo”.
L’icona della Trinità di Andrej Rublev, la più famosa immagine sacra dell’Oriente cristiano, composta agli inizi del Quattrocento, era già stata agitata qualche mese fa come bandiera della guerra santa, spostandola per qualche giorno dal museo della Galleria Tretjakov di Mosca per i festeggiamenti alla Lavra di San Sergio di Radonež, profeta della rinascita della Russia dopo i due secoli del giogo tartaro. Dopo quella esibizione, i curatori e i critici d’arte avevano messo la tavola sacra sotto tutela, affermando che il suo spostamento aveva procurato diversi danni, e per almeno tre anni non si sarebbe più potuta esporre. Ma come alcuni dicono: “Abbiamo sconfitto i nazisti, sconfiggeremo anche gli specialisti”.
Il patriarca Kirill è così tornato alla carica pochi giorni fa, pretendendo nuovamente di usare l’icona per rafforzare lo spirito del patriottismo ortodosso, in fase decisamente calante dopo inutili e devastanti mobilitazioni, che stanno mettendo a dura prova la pazienza dei russi, pur disposti a sostenere sempre le battaglie sacre dell’impero. E qui Putin ha voluto rompere ogni indugio, decidendo di restituire a titolo definitivo l’immagine trinitaria alla Chiesa, per riporla nuovamente nel luogo per cui era stata realizzata: il monastero della Santissima Trinità a settanta chilometri da Mosca dove riposano le spoglie del santo, a cui si prostrano incessantemente i fedeli provenienti da tutto il Paese. Il patriarca ha proposto per questo di “elevare al presidente l’inno Mnogaja Leta”, la variante slavo-ecclesiastica di Ad multos annos, augurio quanto mai profetico in vista delle nuove elezioni del prossimo anno.
Non importa se l’esposizione dell’icona potrebbe ridurla in polvere; come alcuni hanno suggerito, si potrebbe “metterla direttamente nel Mausoleo della piazza Rossa al posto di Lenin”, dove già esiste un laboratorio specializzato nel mantenere la salma del dittatore in stato di “purezza perenne”, trasformandola di fatto in un pupazzo grottesco di una falsa religione. Anche il Mausoleo, del resto, doveva espandersi fino al livello trinitario: accanto al Padre-Lenin si era adagiato il suo Figlio-Stalin, salvo che poi lo Spirito Santo di Khruščev interruppe la liturgia sovietica della divinizzazione del potere, riducendo la sacra tomba a un inutile scatolone delle paccottiglie di un passato, di un trasloco mai riuscito.
L’icona diventa la vera “arma finale” che risolve a favore della Russia ogni conflitto, scatenando l’entusiasmo e l’ironia della popolazione, che sta subissando siti e piattaforme social con ogni tipo di aneddoto sulla “tattica bellica trinitaria”. Una battuta gioca sulla pronuncia dei termini, ricordando quando i russi cercavano aiuto all’estero, ai tempi del crollo economico del 1998: “Amici americani, suggerite a noi russi: come fare a superare la crisi? Economy, just economy”, affermavano supponenti gli anglosassoni oggi tanto odiati, ma la risposta sembrava allora di pieno gradimento. Il fatto è che la parola economy in russo si pronuncia ikonami, cioè “con le icone”, quindi “siamo tranquilli, quelle migliori le abbiamo noi”.
I russi possiedono davvero le icone più straordinarie e famose di tutta la tradizione bizantina, nonostante l’arte della “scrittura sacra” (le icone si scrivono, non si dipingono) sia di origine greca, senza che la tradizione russa l’abbia potuta modificare, essendo normata addirittura da dogmi conciliari, come quello di Nicea nel 787. Dalle solenni decorazioni in affreschi e mosaici delle chiese, l’iconografia si era poi concentrata sulle tavole di legno con i soggetti biblici prescritti e le figure dei santi, dopo oltre un secolo di lotta contro l’eresia dell’iconoclasmo. I monaci costretti a nascondersi e fuggire dovevano portare e conservare le immagini, trasformando la rappresentazione liturgica in devozione privata.
Gli iconoclasti erano sostenuti dagli imperatori della dinastia Isaurica, di origine persiana, che intendeva fare di Bisanzio il vero impero mondiale, e non volevano che le immagini di Cristo e dei santi mettessero in ombra lo splendore dell’autocrate. Già allora le icone assumevano un chiaro significato “politico”, essendo di fatto all’origine della lotta per l’immagine del potere, oggi quanto mai estesa e amplificata dalle moderne tecnologie; non è un caso se i contenuti digitali si aprono “cliccando sull’icona”. La lotta tra cultori e detrattori dell’icona si concluse verso la fine del IX secolo, con la festa del “Trionfo dell’Ortodossia” in cui si elencano i nemici da maledire. Non stupisce dunque che l’antica Rus’ abbia fatto propria questa valenza universale dell’arte sacra, dando alle icone un significato ancora più decisivo e taumaturgico.
Il primo a usare l’icona per giustificare la santità del potere assoluto fu uno degli ultimi principi russi prima dell’invasione mongola, Andrej Bogoljubskij, che nella seconda metà del XII secolo distrusse la città di Kiev per “salvare Kiev”, da antenato dell’odierno zar. Con la scusa dell’invasione dei Bogomili, uno dei tanti popoli che prima dei tatari insidiavano la Rus’, Andrej sottomise tutti i suoi parenti e concorrenti, spostando addirittura la capitale ancor più ad Oriente, nella città di Vladimir (in onore del capostipite), sulle cui “Porte d’Oro” dell’ingresso appese l’icona della Madonna della Tenerezza. Si trattava di un’antica icona greca d’importazione (i monaci russi allora non avevano ancora raggiunto livelli eccelsi nell’arte iconografica), attribuita come altre allo stesso san Luca evangelista, diventata però il primo vero simbolo della “Santa Russia”. Secondo la leggenda, l’icona era custodita in un piccolo monastero in cui Andrej si era fermato a pregare, chiedendo a Dio di indicargli la strada per salvare il regno; e allora la Madonna col Bambino si staccò dalla parete, conducendo il principe fino alla nuova capitale, da cui poi è nata la stessa città di Mosca.
Anche la Madonna di Vladimir è custodita nella Galleria Tretjakov, ma per favorire la devozione è stata tolta dalla sala, e collocata in una cappella appositamente costruita nel cortile del museo, anche qui una specie di mausoleo. Chi la vuole ammirare deve conoscere e ripetere le litanie ortodosse, ma per lo meno i curatori museali possono accertarsi che non venga danneggiata, mentre la Trinità di Rublev rischia di rimanere alla mercé dei fumi d’incenso, usato in grande quantità nelle liturgie. E l’incenso russo è una resina pestifera, non certo simile ai delicati aromi dell’incenso greco.
Del resto la Trinità è un soggetto su cui i russi dibattono da secoli, proprio in merito alla sua rappresentazione iconografica: tra il Quattrocento e il Seicento su questo argomento si sono convocati diversi Concili di Mosca, proprio mentre si formava l’ideologia imperiale della “Terza Roma”. Si discuteva su quale immagine fosse consona ai dogmi, se quella dei tre pellegrini in visita ad Abramo alle tende di Mamre (il soggetto di Rublev) o quella del Padre come “Antico dei secoli” del profeta Daniele, con il Figlio dell’Uomo che discende dalle nubi accompagnato dalla colomba dello Spirito. Oppure quella della fine del Diluvio e del Battesimo al Giordano, o altri simboli più o meno biblici. Ogni dettaglio della pittura veniva sottoposto a disquisizioni teologico-canoniche molto contorte e appassionate, fino alla dimensione dei riccioli sui capelli dei pellegrini o ai colori e le pieghe delle vesti, gli alimenti sulla tavola o gli oggetti sullo sfondo. Gli eretici proclamati in questi concili venivano duramente puniti, e in qualche caso anche giustiziati.
Ora la nuova Ortodossia di Putin e Kirill, come alcuni hanno affermato, “si riversa sui tesori della nostra cultura, con la quasi certezza di riuscire a distruggerli tutti”. La Trinità di Rublev, come altre icone russe del periodo “sacro” della Terza Roma tra XV e XVII secolo, esprime davvero la specificità della cultura russa: una forma di arte dell’Oriente bizantino, perfetta ed eterea nelle proporzioni e nelle linee, in cui artisti come Rublev e altri (solo gli iconografi russi si conoscono per nome) hanno infuso la capacità espressiva tipica dei pittori rinascimentali d’Occidente, da Michelangelo a Caravaggio. Gli sguardi, i colori, i dettagli, l’energia vitale delle icone russe costituiscono davvero l’esaltazione della sintesi delle anime cristiane di tutte le latitudini; usare queste armi simboliche per contrapporre un mondo all’altro, è la via per la completa dissoluzione dell’anima russa.

Senza le icone sacre non sarebbe mai nata l’arte astratta di Andy Warhol

ANDY WARHOL

Cosa lega le icone sacre a Henri Matisse, Vassili Kandinski, Andy Warhol, i grandi maestri dell’arte astratta del ‘900? È incredibile ma l’arte astratta…non sarebbe mai nata senza l’ispirazione delle icone russe, il simbolo dell’ortodossia. Un articolo su Repubblica spiegava il legame intenso tra queste due tipologie d’arte che sembrano lontane anni luce una dall’altra.

La Trinità di Rublev

Per capire il valore di un’icona sacra si può pensare alla “Trinità” di Andrej Rublev, “l’icona delle icone”, come l’aveva definita già il “Concilio dei cento capitoli” convocato tre secoli e mezzo prima da Ivan il Terribile. Il dipinto raffigurava i tre angeli che nell’episodio biblico visitarono Abramo e furono ospitati alla sua tavola. Ma nell’icona nessuno mangiava, e non c’erano né il padrone di casa né Sara, sua moglie.

L’irrapresentabile

C’erano tre figure celesti di inumana bellezza, quasi identiche. I contorni delle loro posture formavano un cerchio che catturava lo sguardo dello spettatore in modo così potente da impedirgli di soffermarsi sui personaggi, o su alcun altro elemento del dipinto, magnetizzato all’interno della perfetta figura geometrica che era il vero soggetto dell’icona. Quel cerchio invisibile, ma soverchiante, rappresentava l’irrappresentabile: la consustanzialità delle tre persone della Trinità, definita già dalla teologia dei primi concili bizantini un’unica sostanza in tre ipòstasi. Una pura astrazione, forse la più difficile fra le astrazioni teologiche. Per questo Rublev l’aveva dipinta. Il suo era un quadro astratto.

Un’opera spirituale

Il filoosofo russo Pavel Florenskij spiegava che «l’icona o è sempre più grande di se stessa, se è una visione celeste; o è meno di se stessa, se non apre il mondo soprannaturale alla coscienza» di chi la guarda. Il suo scopo è sollevarla verso il mondo spirituale: se questo non si attua nella valutazione o nella sensibilità di chi guarda, l’icona resterà solo «una remota sensazione dell’oltremondo».

Interfaccia tra visibile e invisibile

L’icona non è, dunque, arte figurativa. Tuttavia questo nuovo, rivoluzionario statuto non figurativo dell’icona, interfaccia tra il visibile e l’invisibile, dimostrazione stessa che i due mondi possono venire a  contatto, sancito dalla teologia, affermato nella cultura bizantina, non era stato compreso dall’occidente. Fino al XX secolo.

La svolta del 1904

La data del 1904, che vede il restauro della “Trinità” di Rublev, è una data simbolo. Da un lato segna la riscoperta dell’icona da parte dell’estetica moderna, d’altro lato, e parallelamente, la nascita della moderna arte astratta. Risale all’anno successivo, il 1905, la nomina a conservatore della galleria Tretjakov di Mosca di Ilja Ostruchov, che del nuovo culto intellettuale dell’icona era stato, insieme a Pavel Muratov, l’attivista e l’apostolo.

Il “San Giorgio” di Kandiskij

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Prima Henri Matisse, poi Vassili Kandinskij si contaminano con l’arte iconica russa. Kandiskij, in particolare, crea programmaticamente l’astrattismo a partire dall’esperienza delle icone. Il culmine dell’ispirazione bizantina è il suo lavoro su “San Giorgio”. 

San Giorgio è il santo della Cappadocia che riesce a liberare la principessa uccidendo un drago molto feroce. Nella sua rappresentazione, Kandinskij gli conferisce significati spirituali e religiosi. È composto da una enorme linea diagonale gialla, che raffigura appunto la lancia del santo che va ad conficcarsi nelle fauci del drago, di cui si vede anche la cresta. Una mescolanza di colori chiari e scuri sviluppano il dipinto, colori caldi e freddi, conferendogli un gioco di dissonanza: “La dissonanza pittorica e musicale di oggi non è altro che la consonanza di domani spiegava l’artista. Ma ciò rende il dipinto in perfetta armonia”, affermava l’artista.

In guerra contro gli “idoli”

L’arte contemporanea, scriveva ancora la Repubblica, acquista le sue ragioni e trae il suo fine dall’”iconoclasmo latente” dell’icona sacra, affrancandosi dalla dimensione religiosa e riportando al terreno secolare la sua dichiarazione di guerra alla moltiplicazione degli “idoli”, segnata, fra l’altro, dopo l’affermarsi della fotografia, dalla crescente diffusione di “false immagini” (mediatiche, pubblicitarie, comunque mercificate e “pornografiche”) nella società di massa emersa dal Secolo Breve e dalle sue rivoluzioni.

La “Coca Cola” di Warhol

In Andy Warhol, figlio di emigrati ruteni (etnia slava), ha ispirato all’icona russa, per esplicita ammissione, il metodo della ripetizione, l’adozione del multiplo, a perseguire lo svuotamento dell’immagine-idolo (consumistica, per esempio le bottiglie di Coca Cola, o anche semplicemente giornalistica: incidenti stradali, sedie elettriche).

Il “Blu” Klein

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Yves Klein opera la cancellazione totale della figura in tavole che a pieno titolo possiamo chiamare icone, dove i fondi oro diventano soggetto autonomo e l’astratta semantica bizantina del colore, già indispensabile per leggere la Trinità di Rublev (l’oro della sovrasostanzialità, il blu della vita eterna), trionfa evidente: il famoso “Blu Klein” è eminentemente, inconfondibilmente bizantino.

PROPRIETÀ DI EDUARDO KELDEREK